Migrazioni A.D. 2018: Cronache da un Paese diviso - L’Italia e la Legge del Mare
Si consiglia fortemente la lettura di questo antefatto prima di iniziare a leggere il post.
Ho già spiegato in maniera approfondita la questione SAR in questo precedente articolo, però faccio una breve ricostruzione del quadro.
Sul soccorso in mare nudo e crudo, quindi il salvataggio di persone che si trovano già in acqua o in imminente pericolo di finirci, ci sono due Convenzioni madre da rispettare: Amburgo (che istituisce le zone SAR) e SOLAS (che riguarda la sicurezza in mare. Pensate che la prima versione fu fatta dopo l’incidente del Titanic!).
Mentre SOLAS riguarda le imbarcazioni, la loro struttura e sicurezza, Amburgo si occupa del salvataggio: essa prevede che tutto il mare sul globo terrestre (anche il Mar glaciale artico, per intenderci!) debba essere diviso in zone che prendono il nome di “aree SAR” (Search And Rescue, quindi “Ricerca e soccorso”). Ognuna di queste zone DEVE essere coperta da uno Stato (o da più Stati che decidono di collaborare, come avviene ad esempio nell’Artico), il quale deve pattugliare con regolarità quella zona e in generale intervenire ogni qualvolta sia allertato sulla presenza di persone in mare o in pericolo.
Per l’Italia questo compito è espletato dalla Guardia Costiera, che in genere coordina il tutto dal Comando centrale di Roma ma che nel periodo in cui vi è stata l’emergenza migranti (anni 2014-2015) aveva spostato il suo centro direzionale sulla nave San Marco, in modo da essere già sul teatro delle operazioni e poter meglio comprendere e decidere il da farsi.
1. Come mai le navi italiane stanno al di fuori delle acque territoriali italiane?
Ora, il primo grande misunderstanding che sento o leggo spesso, è che non ci si spiega come mai le navi italiane stiano al di fuori delle acque territoriali. La ragione è molto semplice: le acque territoriali sono una cosa, le acque della zona SAR sono un’altra.
Innanzitutto hanno un’estensione diversa: il mare territoriale NON può superare le 12 miglia marine.
Potete vedere in questa cartina quali sono le acque territoriali italiane (le acque tra la terraferma e la linea tratteggiata) e rendervi conto che un traghetto che parte da Civitavecchia e va in Sardegna esce abbondantemente dalle acque territoriali italiane. Incredibile a dirsi, ma se il ragionamento fosse che la Guardia Costiera italiana deve rimanere nelle acque territoriali italiane, allora non dovrebbe andare nemmeno a salvare navi in difficoltà che si trovino all’altezza della scritta (in cartina) “Mare Tirreno” o “Mare Ligure” o “Mare Adriatico” o “Mare Jonio” visto che in quei punti siamo fuori dalle nostre acque territoriali.
Ma appunto le cose non stanno così. I salvataggi in mare non c’entrano una cippa lippa con le acque territoriali. La zona SAR è notevolmente più ampia e, proprio perché la Convenzione di Amburgo prevede che non vi siano zone di mare scoperte, spesso e volentieri, direi quasi sempre, la zona SAR comprende anche zone giuridicamente qualificate come mare internazionale (fuori quindi dalle acque territoriali).
Prima di mostrarvi qual è la zona SAR italiana, vi aggiungo una chicca (almeno, io credo che lo sia visto che non ne sento mai parlare in giro). Il mare può essere diviso in tante porzioni (trovate il dettaglio in questo articolo sui Marò), tra queste ve n’è una interessante in tema immigrazione, perché – se istituita -darebbe potere allo Stato costiero (in questo caso l’Italia) di prevenire o punire violazioni delle leggi nazionali sull’immigrazione sul proprio territorio o mare territoriale. Si tratta della zona contigua. L’Italia questa zona non l’ha mai istituita (sebbene ci siano alcune leggi dello Stato, ad esempio la “Bossi-Fini”, l. 189/2002, che vi fanno riferimento. Ma appunto, non essendo mai stata istituita, qualunque riferimento ad esso lascia il tempo che trova). Francia e Malta invece sì, la zona contigua ce l’hanno! Chiamiamoli scemi…
Non c’è un’estensione specifica per le zone SAR, la loro ampiezza dipende dalla dichiarazione fatta dal singolo Stato - che una volta “misurate” le proprie capacità di intervento, le proprie risorse in termini di uomini e mezzi, dice “io posso coprire e vigilare tot spazi” - e da successivo accordo bilaterale con lo Stato confinante, di modo che dove finisce una zona SAR ne inizia un’altra (appuntatevi questo aspetto, perché tornerà a breve!). In questa cartina vedete la nostra zona SAR, evidentemente molto più ampia del nostro mare territoriale. Ve la riporto con la suddivisione interna delle competenze tra i diversi centri della Guardia Costiera, e noterete che per il Canale di Sicilia possono rispondere o Palermo o Catania.
La Cartina non fa altro che riprodurre le indicazioni di legge contenuti nell’Annesso 2 al D.P.R. 662/94.
Fra un po’ vedremo anche le SAR degli altri Stati, ma prima precisiamo un’altra cosa.
Un’altra differenza tra zona SAR e mare territoriale sta nel fatto che quest’ultimo è un’area su cui lo Stato ha DIRITTI sovrani, invece nella zona SAR lo Stato ha SOLO DOVERI, e nello specifico il dovere di cercare le persone in pericolo (Search) e di salvarle (Rescue). Punto.
Questo dovere tendenzialmente si “limita” alla propria area SAR, ma se la zona SAR confinante non è vigilata dallo Stato che dovrebbe vigilarla (es. Malta) o perché non vuole o perché non ne è in grado, allora è lo Stato vicino a doversene occupare (Italia). Ciò perché l’uomo in mare non può pagare per i capricci degli Stati; sono due piani diversi, mentre gli Stati giocano a rimpiattino la gente non può né stare in acqua né vagare in mare in cerca di una qualunque destinazione.
Ora facciamo la fotografia alle SAR nel Mediterraneo. E potete ben vedere che la nostra cara amica Malta ha unilateralmente deciso che la sua SAR è grande 750 volte il suo territorio: sembra quasi una logica di compensazione, siccome io son piccola piccola allora mi prendo una porzione di mare grande grande!
Solo che poi, essendo una porzione di mare enorme, non ce la fa a vigilarla per davvero e quindi spesso, anziché ammettere di essersi assunta impegni che non è in grado di rispettare, o non risponde alle chiamate di soccorso o dice che finché era nella sua zona SAR la nave stava a postissimo e guarda caso ha iniziato a imbarcare acqua proprio quando è entrata nella SAR italiana.
Se può permettersi quest’atteggiamento è anche perché, in mancanza di una definizione effettiva su chi abbia la competenza su quelle porzioni di mare (visto che come la cartina giù ci mostra, la zona SAR maltese in alcuni punti si sovrappone a quella italiana), la confusione alimenta confusione e ammette la possibilità di affermare tutto e il contrario di tutto.
Ora facciamo una zoommata sull’area che ci interessa, intorno a Lampedusa.
E ammiriamo e contempliamo in questa cartina come intorno a Linosa, Lampione e Lampedusa c’è un casotto che la metà basterebbe. Nel senso che una parte di SAR intorno a Linosa è contesa tra Italia e Malta, un’altra parte (nella cartina indicata con il numero 2) se la giocano Italia, Malta e Tunisia.
Zoommiamo ancora e andiamo a vedere, nell’ultimo caso Diciotti, dove è avvenuto il salvataggio.
Manco a farlo apposta siamo nell’area più incasinata, ma per fortuna la Tunisia fa la tecnica “tra i due litiganti, il terzo gode” e tanti cari saluti. Quindi la diatriba potenziale a tre, diviene la diatriba effettiva a due.
Ora, il salvataggio è stato effettuato a 17,8 miglia marine dalla costa, quindi 5,8 miglia marine al di fuori delle nostre acque territoriali ma perfettamente all’interno della zona SAR italiana indicata nel DPR che vi ho riportato su, e a questo punto c’è poco da dire perché delle due l’una:
- o diamo ragione a Malta e diciamo che quella zona SAR è sua, cambiamo il decreto che fissa i limiti delle nostre aree di competenza (quello che vi ho citato su!) e d’ora in poi ce ne laviamo le mani per il mare intorno a Lampedusa;
- oppure manteniamo la nostra posizione e quindi riteniamo, come da decreto, quella come nostra zona SAR e allora il salvataggio spettava a noi.
Nel caso ultimo Diciotti ciò che si rimproverava a Malta era che avesse fatto la furba, avesse accompagnato la carretta del mare nella nostra zona di competenza (ma allora a questo punto Malta ci sta dando ragione! Quella è la nostra zona SAR e non sua…) per non essere chiamata a intervenire.
Ma anche qui le chiacchiere si riducono davvero di molto: o facciamo il loro gioco e la prossima volta le carrette del mare che stanno nella nostra zona le accompagniamo fino a quella maltese così affonda lì e se la vedono loro (e se non affonda? E se loro ce la riportano indietro, che facciamo? Continuiamo in eterno il ping pong?) oppure una volta che abbiamo effettuato il soccorso, prendiamo atto del fatto che la competenza è passata a noi, ce la teniamo, la gestiamo di conseguenza e poi con Malta ce la vediamo per via diplomatica, senza mettere in mezzo la nostra guardia costiera e tutte le altre persone coinvolte.
Per fare un paragone con la vicenda dei Marò, che essendo una questione di mare si presta in alcuni aspetti alla comparazione, l’India non avrebbe mai potuto esercitare alcuna giurisdizione sull’Enrica Lexie e le persone che erano a bordo se la nave si fosse rifiutata di entrare nel mare territoriale indiano. Ma ci è entrata e in quel momento abbiamo innescato l’attivazione di alcune regole, ossia l’accettazione in tutto o in parte della sua giurisdizione, da cui nei mesi e anni successivi è stato sempre più difficile divincolarsi. Ora qui è la stessa cosa, e ve lo faccio con un esempio ancora più “eclatante”: anche se la nostra guardia costiera fosse intervenuta nella zona SAR maltese di fronte a una situazione in cui altri soccorsi non sarebbero potuti arrivare con la guardia costiera maltese che si negava alla radio (quindi: intervento in acque SAR maltesi ma sotto il coordinamento della Guardia costiera italiana), la competenza passa in tutto e per tutto allo Stato che coordina il salvataggio, indipendentemente dalle acque in cui ci si trova.
E Malta usa spesso questa tecnica, cioè negarsi alla radio, così scatta l’obbligo - per lo Stato della zona SAR confinante - di intervenire. Perché una vita in mare la si salva, sempre e comunque.
2. Malta se li deve prendere! Il No Way australiano e il caso “Tampa”
Al che mi potrete dire voi “Ok, vada per la competenza per il salvataggio, ma poi almeno sbarchiamoli a Malta che era la vera responsabile dell’area in cui si è intervenuti!”.
Mi dispiace comunicare che qui siamo in presenza di un supermegacetriolo; infatti, c’è una differenza tra l’Italia e Malta, ossia che noi abbiamo ratificato un emendamento IMO (Organizzazione internazionale marittima) in base al quale lo Stato che coordina il salvataggio deve condurre le persone in un porto sicuro sul SUO territorio, se lo Stato geograficamente più vicino si rifiuta di accoglierlo. L’Italia lo ha ratificato, Malta NO. Quindi se i salvataggi li coordiniamo noi, è nei nostri porti che poi devono essere portati, a meno che Malta non si dica disponibile di sua volontà agli sbarchi. Ma alla questione sbarchi dedicherò una specifica parte di questa "saga". Intanto mi preme anticiparvi che questo emendamento IMO (leggasi, il supermegacetriolo) è stato introdotto “grazie” alla nostra amica Australia…
Il fattaccio avvenne nell’agosto 2001: il mercantile norvegese Tampa soccorse (26 agosto) un peschereccio indonesiano in avaria nelle acque internazionali al largo dell’Isola australiana di Christmas. Il peschereccio trasportava 433 migranti di diversa nazionalità (afgani, cingalesi, indonesiani, iracheni e pakistani) con l’obiettivo di farli approdare sulle coste australiane e chiedere asilo. Entrato in avaria, esso viene incrociato dal mercantile Tampa che, sebbene avesse capacità di massimo 50 passeggeri, si fece carico del salvataggio imbarcando un numero di persone quasi nove volte superiore al consentito.
Piccola zoommata, così vediamo meglio il “fattaccio”. Christmas Island è quella cerchiata in rosso, che appartiene all’Australia ma è geograficamente molto vicina all’Indonesia.
L’Australia fu contattata dal peschereccio indonesiano in avaria, CHIESE al mercantile Tampa di intervenire per il soccorso, e poi tanti cari saluti. L’attracco più vicino era Christmas Island ma, avendo ricevuto un perentorio rifiuto da parte dell’Australia circa l’ingresso nelle sue acque territoriali, il Tampa si diresse verso l’Indonesia. Tuttavia, i migranti/richiedenti asilo indonesiani protestarono con forza (si sarebbe concretizzato, infatti, un respingimento verso lo Stato d’origine da cui invece volevano chiedere protezione) e quindi il capitano fu costretto a invertire la rotta e dirigersi nuovamente verso le coste australiane. Naturalmente, il NIET australiano all’ingresso nelle sue acque continuava e il Tampa fu bloccato a 13,5 miglia marine dalle coste australiane.
L’Australia affermava che la competenza sui migranti fosse o della Norvegia (visto che il Tampa era norvegese) o dell’Indonesia (visto che il peschereccio andato in avaria era indonesiano). In questo ping pong, il governo di Camberra però si scordava che il Tampa portava un carico superiore di ben 9 volte a quello per cui era omologato (e qui interviene anche la Convenzione SOLAS sulla sicurezza della navigazione) per cui l’imbarcazione non era più in grado di dirigersi da nessuna parte; a ciò si aggiungeva il peggioramento delle condizioni sanitarie dei migranti appena salvati.
Il comandante fu pertanto di fatto costretto a infrangere il divieto australiano, entrare nelle acque territoriali e proclamare l’emergenza sanitaria. Intervennero rapidamente a questo punto i corpi speciali dell’esercito australiano che, dopo aver occupato la nave, prestarono la necessaria assistenza sanitaria, continuando comunque a impedire in ogni modo lo sbarco del mercantile sulle coste australiane. Anzi, una volta terminata l’emergenza sanitaria, le autorità intimarono al comandante della nave di riprendere il largo. Ma a causa dell’eccessivo carico della nave, egli rifiutò categoricamente di intraprendere un viaggio in quelle condizioni.
Lo stallo durò fino al 1° settembre 2001, quando l’Australia raggiunse un accordo con Nauru e Nuova Zelanda, che avrebbero accolto i naufraghi sul proprio territorio.
Allora, la storia del Tampa continuerò a raccontarvela in un altro post di questa "saga", per adesso fermiamoci qui: dobbiamo considerare due articoli, l’art. 98 della Convenzione sul diritto del mare (del 1982) e l’art. 33 della Convenzione di Ginevra (del 1951). Di quest’ultimo parleremo nella parte dedicata ai respingimenti.
Il primo invece così recita, recependo un obbligo di natura consuetudinaria a carico di tutti gli Stati:
“Obbligo di prestare soccorso
1. Ogni Stato deve esigere che il comandante di una nave che batte la sua bandiera, nella misura in cui gli sia possibile adempiere senza mettere a repentaglio la nave, l'equipaggio o i passeggeri:
a) presti soccorso a chiunque sia trovato in mare in condizioni di pericolo;
b) proceda quanto più velocemente è possibile al soccorso delle persone in pericolo, se viene a conoscenza del loro bisogno di aiuto, nella misura in cui ci si può ragionevolmente aspettare da lui tale iniziativa;
c) presti soccorso, in caso di abbordo, all'altra nave, al suo equipaggio e ai suoi passeggeri e, quando è possibile, comunichi all'altra nave il nome della propria e il porto presso cui essa è immatricolata, e qual è il porto più vicino presso cui farà scalo.
2. Ogni Stato costiero promuove la costituzione e il funzionamento permanente di un servizio adeguato ed efficace di ricerca e soccorso per tutelare la sicurezza marittima e aerea e, quando le circostanze lo richiedono, collabora a questo fine con gli Stati adiacenti tramite accordi regionali.”
In particolare, nel caso di specie, ci interessa la seconda parte, ossia “costituzione e funzionamento permanente di un servizio adeguato ed efficace di ricerca e soccorso per tutelare la sicurezza marittima e aerea”. E il rifiuto dell’Australia di far entrare nelle sue acque una nave (il Tampa) in evidente difficoltà rispetto a quelli che sono i parametri internazionali di sicurezza marittima (il sovraccarico di persone a bordo bastava e avanzava come motivazione valida!) è evidentemente una mancanza di rispetto del secondo comma dell’art. 98.
La Convenzione di Londra del 1989 sull’assistenza in mare ribadì il concetto del 1982 e lo esplicitò un po’ di più:
Art. 10 (Obbligo di prestare assistenza)
“1. Ogni capitano è tenuto a prestare assistenza a qualsiasi persona che si trovi in pericolo di perdersi in mare, nella misura in cui ciò non arrechi gravi pregiudizi alla sua nave e alle persone a bordo.
2. Gli Stati Parte prendono le misure necessarie atte a fare osservare l’obbligo di cui al paragrafo 1.
3. Il proprietario della nave non è responsabile per l’inosservanza all’obbligo di cui al paragrafo 1 da parte del capitano.”
E vedete che il comma 2 di questo articolo ben rientra nel caso Tampa, ossia l’Australia doveva prendere tutte le misure necessarie per aiutare il comandante del mercantile norvegese nell’attività di assistenza che stava svolgendo, non complicargli la vita; a maggior ragione perché l’Australia in quel momento era il solo elemento di reale soccorso disponibile.
Il successivo art. 11 (“Collaborazione”) della Convenzione di Londra poi aggiunge:
“Ogni volta che uno Stato Parte emana regolamenti o prende decisioni su questioni relative a operazioni di assistenza, quali l’ammissione in un porto di navi in pericolo di naufragio o la messa a disposizione di infrastrutture per persone che prestano assistenza, deve tener conto della necessità di collaborazione tra le persone che prestano assistenza, le altre parti interessate e le autorità pubbliche, in modo da assicurare l’efficacia e la riuscita delle operazioni di assistenza volte a salvare vite umane o beni in pericolo e a prevenire pregiudizi per l’ambiente in generale.”
Credo non ci sia bisogno di aggiungere altro, dice tutto da sé.
La giustezza dell’azione successiva, ossia il reperimento di un differente place of safety (Nuova Zelanda e Nauru) a carico dello Stato costiero, come stabilito dalla Convenzione SAR emendata nel 2006, è stato il risultato di un’azione di forza illecita del capitano del mercantile norvegese, che ha di fatto costretto le autorità australiane a prendersi carico, con colpevole ritardo, di una situazione che non poteva essere altro che di loro competenza.
Questo episodio ha spinto l’IMO a fare gli emendamenti alle Convenzioni SAR e SOLAS che hanno imposto allo Stato che coordina il soccorso (nel caso Tampa fu l’Indonesia, visto che l’Australia si era limitata a segnalare l’avaria del peschereccio) di trovare un porto sicuro sul proprio territorio se lo Stato geograficamente più vicino si rifiuta di collaborare. Ciò per impedire che una situazione del genere si ripetesse.
Infatti, nel testo che introduce gli emendamenti l’IMO ha individuato determinate priorità:
1. salvataggio: tutte le persone in pericolo in mare devono essere assistite senza ritardo;
2. preservazione dell’integrità e dell’efficacia dei servizi SAR: fornire pronta assistenza alle imbarcazioni in mare è un elemento essenziale dei servizi globali SAR, perciò ciò deve rimanere una priorità fondamentale per comandanti, compagnie marittime e Stati di bandiera;
3. sollevare i comandanti da ulteriori obblighi dopo quello di aver assistito le persone: gli Stati di bandiera e quelli costieri devono fornire efficaci soluzioni sul posto per assistere prontamente i comandanti e sollevarli dalla responsabilità delle persone recuperate dalle imbarcazioni in mare. Ovviamente pensando all’esperienza provante del comandante del Tampa!!!
Ora, per riassumere, questo stato di confusione e sovrapposizione rende chiaro il detto “troppi cuochi guastano la cucina” e comporta che quando Malta non è in grado di intervenire, allora in questo DOVERE subentra l’Italia, in quanto Stato della SAR confinante.
Ad effetto domino questo vale anche per la SAR libica: fino a luglio 2018 non esisteva in niente e per niente una SAR libica sotto la guardia costiera libica, quindi era Malta a doversi occupare del pattugliamento e, se non lo faceva Malta, allora doveva farlo l’Italia. È questo il motivo per cui tante volte le nostre navi erano “laggiù”.
L’Unione europea attraverso la Missione Sophia (o EUNAVFOR Med) ha avuto il compito, tra gli altri, di fare formazione alla guardia costiera libica (perché noi diamo per scontato che istituzioni e leggi siano uguali dovunque, e invece così non è. Una guardia costiera libica manco esisteva fra un po’…).
A dicembre 2017 il governo Serraj aveva chiesto all’IMO l’autorizzazione a creare la sua zona SAR; autorizzazione respinta perché il governo libico non aveva risorse e capacità adeguate per l’impegno richiesto da una zona SAR. A luglio 2018 la richiesta è stata nuovamente effettuata e l’autorizzazione è arrivata solo perché l’UE ha garantito la sua assistenza! Quindi, anche adesso non è che fanno tutto i libici, la presenza internazionale europea (quindi anche quella italiana) continua ad esserci, perlomeno fino a dicembre 2018 (ma probabilmente sarà ulteriormente rinnovata).
Non addentriamoci a valutare la capacità libica di pattugliare la sua porzione di mare, altrimenti apriamo uno spin-off che non finisce più.
Ultima precisazione, a cui tengo, sulle norme generali: una guardia costiera può utilizzare per il soccorso in mare QUALUNQUE NAVE; naturalmente se le sue sono vicine al luogo del pericolo userà le sue, ma se così non è può cooptare qualunque nave (italiana o straniera, mercantile o privata) che si trovi più vicina alla zona dove è richiesto il soccorso. È in questa modalità che venivano usate anche le navi delle ONG.
Ora, piccola postilla sulla vicenda Aquarius (di giugno). Ritrovate qui una slide che ho preparato mesi fa per una lezione, da cui si evince che i 629 migranti che erano a bordo dell’Aquarius venivano da ben 6 operazioni di salvataggio (2 eseguite direttamente dall’Aquarius, 3 dalla Guardia Costiera, 1 dal mercantile MV Jolly Vanadio) e TUTTE sotto il coordinamento di Roma.
Quindi è stata presentata come collusa coi trafficanti una nave che aveva eseguito due operazioni sotto il comando di Roma e che poi, vista la stazza, aveva accettato che fossero trasferite a bordo 119 persone salvate da un mercantile e 283 persone salvate dalle imbarcazioni della Guardia Costiera. C’è qualche cosa che non funziona nella narrazione delle cose all’interno di questo Paese…
E’ giustissimo adoperarsi per portare avanti le proprie idee politiche soprattutto se, per quelle, hai ricevuto un mandato elettorale, però se c’è bisogno di modificare la realtà evidentemente non si è proprio sicuri sicuri delle cose che si raccontano altrimenti non ci sarebbe alcun bisogno di “barare”.
Io non escludo che ci siano ONG colluse, ONG che si arricchiscono sulle buone cause che fingono di sposare, ma ci sono anche ONG leali e rispettose sia della dignità degli esseri umani sia delle leggi dello Stato. Non è che se io sono a favore della tutela della dignità di uno straniero in quanto essere umano allora sono contro lo Stato italiano. Che ragionamento è, scusate?! La mente umana non può essere così limitata da non poter far coesistere due concetti all’interno del cuore della stessa persona. Eppure, se difendo i migranti sono contro lo Stato, se sono a favore dello Stato sono contro i migranti?! Nein, signori…
Sarebbe stato preferibile, a mio modesto modo di vedere, dire alle ONG “ritornate a fare quello che stavate facendo quando nel 2014-2015 vi abbiamo chiamate per aiutarci ad affrontare l’emergenza, visto che con le nostre sole forze non ce la facevamo”; ma si è preferito farle passare tutte per criminali.
E teniamo presente anche un’altra cosa: che “cacciare” le ONG è stato possibile solo perché ora non siamo più nell’emergenza, ma se fossimo stati nel 2014-2015 col cappero che Salvini o chi per lui avrebbe detto loro di andarsene. Le avrebbe implorate di rimanere ad aiutare, fidatevi, perché la nostra Guardia Costiera e la Marina in generale sarebbero state iper-iper-oberate.
Una visione così manichea del mondo credo che non ci fosse neppure durante la guerra fredda, ma il divide et impera ha sempre funzionato.
3.Soluzioni prospettate
Come visto, chi interviene nel salvataggio innesca un meccanismo di obblighi. L’origine degli obblighi sta dunque nella competenza SAR, e uno dei principali problemi che abbiamo con Malta è appunto la sovrapposizione della zona SAR maltese con quella italiana. Ciò è dovuto all’assenza di un accordo bilaterale tra Roma e La Valletta e questa confusione consente lo scaricabarile e le furbate che spesso Malta fa a nostro discapito.
Bisogna tracciare i confini SAR con un accordo. Come si dice, “patti chiari, amicizia lunga”.
Indipendentemente da ciò, c’è un altro passo importante che l’Italia potrebbe fare e che, ora, dopo anni di “giochetti” da parte di Malta DOVREBBE fare: ogni qualvolta Malta viola le Convenzioni SAR o UNCLOS o SOLAS, l’Italia dovrebbe finalmente citarla in giudizio davanti alla Corte internazionale di giustizia o al Tribunale del Mare, a seconda della normativa violata. Le “piccole” Filippine hanno avuto il coraggio di citare la “grande” Cina e hanno pure vinto la causa, e l’Italia non ha abbastanza pelo sullo stomaco da citare Malta? Ma stiamo scherzando?
In questo modo, se Malta non vuole collaborare di sua spontanea volontà, dovrà farlo per via di una bella condanna. Ma finché vedrà un’Italia che sa solo lamentarsi ma non passa mai alle vie di fatto (e non illudetevi, manco quelle del Ministro Salvini sono vie di fatto, bensì solo lamentele più vivaci), perché mai dovrebbe voler cambiare idea se può fare tranquillamente tutto quello che gli va?